Koyaanisquatsi di Godfrey Reggio, 1982

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Se togliamo cose preziose dalla terra la prepariamo al disastro.” (Proverbio Hopi)

Torniamo a parlare di cinema d’essai dopo un lungo silenzio, grazie al contributo speciale dell’amico e cinefilo Henry Spencer e lo facciamo ancora trattando di una pellicola che è riuscita negli anni a mantenere intatta la sua eloquenza. Si tratta del documentario Koyaanisquatsi di Godfrey Reggio del 1982, film di capitale importanza, essenziale per realizzare il desiderio di fermarsi, un viaggio supersonico che fa davvero sudare freddo dopo la cui visione nessuno di noi potrà vedere esattamente le cose come prima, compreso il fatto di non vederle per nulla. Uno sguardo privilegiato dall’alto su tutto ciò che, in nome di una esistenza che ci sta ancora stretta, abbiamo realizzato.
Di seguito la recensione di Henry Spencer e il trailer del film, non aggiungo altro…

Koyaanisquatsi, voluto dal mecenatismo indipendentista di Francis Ford Coppola,
è il primo film di una trilogia sulla perdita dell’equilibrio, sulla trasformazione del pianeta, sulla sua frenesia e che prende le mosse dal linguaggio della tribù di pellerossa Hopi, ancora esistente in una piccola riserva nordamericana, che assegna già nel titolo le intenzioni di questo film di culto assoluto: la vita fuori controllo.

Cos’è ancora questo gioiello ipnotico a distanza di 30 anni? Un montaggio di deserti,di vallate completamente prive della presenza umana,di cieli infiniti, di onde invalicabili che letteralmente diventano grattacieli le cui finestre si illuminano al suono dell’indimenticabile colonna sonora del vate della musica elettro-mistica minimalista che è Philip Glass,di folle oceaniche, di esplosioni atomiche, di traffici metropolitani filmati a velocità decuplicate ed a normalizzazioni improvvise, di raffinerie, di sguardi vuoti, restituendo in questa sovrapposizione un significato come voleva il montaggio analogico dei cineasti russi.

Un film in cui non succede nulla ma accade tutto e che celebra l’arrivo dell’uomo sul nostro pianeta con un senso di inquietudine che mai più si rivedrà sul grande schermo.

In questo silenzio, come in tutti quelli che non corrispondono al mutismo, tante sono le domande che si pone lo spettatore attento ed un’unica certezza: l’uomo ha creato la velocità,ha modificato il pianeta per accelerarlo e conseguentemente ha diminuito il suo tempo effettivo, esasperando la sua attività.

Anche le prime immagini di natura totalizzante sono il risultato di anni (6 per l’esattezza) di riprese ed il risultato è un collage di attimi, di frazioni di secondo in cui tutto avviene, come se il cineocchio del regista (conosciuto quasi esclusivamente per questa trilogia) potesse modificare la naturale lentezza del processo naturale in quanto elemento umano d’osservazione.

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Lo stile della pellicola è stato a dir poco seminale per molto del cinema, non solo documentaristico successivo, per la tecnica pubblicitaria contemporanea (molte immagini del film sono state riprese da campagne fra le più disparate) ed in ultimo dall’ondata dei video virali dei nostri tempi.

Un pezzo d’arte assoluto che parla dell’inevitabilità ma anche di quanto sia inafferrabile ciò che l’uomo ha reso inevitabile, della sostituzione della dura e ruvida spontaneità della vita di una pietra, di un mondo che era già bello e
pauroso prima dell’orma umana con l’altrettanto sincera dittatorialità di un tempo che non aspetta più, di una nuova tremenda bellezza, fresca di fabbrica con un deciso retrogusto plastico e di un suono che è diventato indistinto.

Diventa dunque emblematico il volto della luna che si nasconde velocemente dietro la facciata di un grattacielo sul quale poco prima si stagliava una nube anch’essa pressata dalla fretta,dalla paura,dal fatto che non ci fosse quasi
posto per la sua esistenza (il voler aver preso in prestito la filosofia di una riserva indiana non è dunque certo presa a caso).

Koyaanisquatsi parla dunque di un essere che si sostituisce a quella nuvola, di una fabbrica di salsicce che si sostituisce a quella luna, di un percorso di vita che non è mai naturale e che così viene filmato nelle sue accelerazioni e nell’improvvisa e disillusa brusca frenata finale.

Le finestre dei grattacieli si spengono, gli sguardi degli uomini si abbassano, i loro passi tornano normali ma senza una strada precisa da percorrere; è la tremenda,amarissima consapevolezza che il finale della pellicola ci lascia. Un fallimento morale che si fa strada fra le cose costruite dagli uomini e negli uomini stessi.

La soluzione? Puntare il cielo. Ed è con l’ultima tragica sequenza di un razzo spaziale che esplode in fiamme che la pellicola chiude la sua laconica lezione accompagnata dal tema musicale che sembra quasi spegnersi con essa, sputando in mille pezzi un sogno che, pur se lecito come ogni sogno, ha dimenticato che i suoi pochi secondi sono spesso figli di una notte intera. La presenza umana primitiva rimane un ideogramma su una parete, ricordo di prima, allarme del dopo.

Assoluto.

Buona visione, a presto ecopunkers!

Per chiacchierare con Henry Spencer riguardo al cinema e musica, non esistate a scrivergli all’indirizzo mammano@inwind.it

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